martedì

Perchè l'udito "naturale" è migliore di quello "artificiale"?

Lungi da me l’idea di voler criticare lo strumento che tenta di restituire l’udito a coloro che lo hanno perso: in questo post vuol solo cercare di chiarire dove sono le differenze maggiori tra chi ci sente bene (le persone normoudenti) e chi no (le persone sorde), e soprattutto il perché.
Quando si vuole riportare su un piano più razionale, con i piedi per terra, la meraviglia dell’orecchio bionico, si dice che in ultima analisi “…non è uguale al sentirci bene, come con l’udito naturale”. Questo è vero, l’esperienza ce lo mostra. Il più grande “Campione di impianto cocleare” se la batte quasi alla pari con i normoudenti in situazioni di quiete, suscitando l’entusiasmo del pubblico…. salvo mostrare la corda quando si è in mezzo al casino più generale: In questa situazione, il normoudente è in difficoltà, ma se la cava; il “Campione di impianto cocleare”, tranne rarissime eccezioni, crolla miserabilmente, non riuscendo più a capire nulla.

Ma come mai l’orecchio “bionico” non è allo stesso livello di quello “naturale”? Che diamine, potrebbe esistere un udito artificiale che riproduce perfettamente quello naturale, forse si tratta di un fatto riguardante tecnologia non ancora sufficientemente avanzata? O forse la differenza tra artificiale e naturale è da ricercarsi nella pura dinamica di trasmissione dei suoni?
La risposta è: tutte e due.
L’udito artificiale è meno valido di quello naturale sia perché la tecnologia non è ancora avanzata quanto si vorrebbe, sia perché l’impianto cocleare scavalca alcuni fenomeni di acustica applicata che sono estremamente importanti nella fisiologia dell’udito.
Cominciamo da quest’ultimo fattore: l’acustica. Tutti noi abbiamo i padiglioni auricolari, ma non solo gli esseri umani, anche moltissime altre specie animali li posseggono. L’esperienza ci mostra che gli animali con le orecchie più grandi sono quelli con l’udito più fino, e addirittura molte specie hanno le orecchie “orientabili”, che possono venir ruotate in varie direzioni, per poter captare meglio i suoni. Ed è appunto questa l’importanza del padiglione auricolare: quella di raccogliere i suoni in maniera più efficace per convogliarli nel condotto uditivo. E qui cosa succede? Succede che nel condotto uditivo avviene un fenomeno acustico particolare in quanto esso funge da cassa di risonanza per le onde sonore che lo attraversano. La cosa più importante -e poco nota- è che durante il tragitto verso la membrana timpanica alcune frequenze vengono esaltate e altre diminuite. Quali? Qui la fisica ci viene in aiuto, mediante l’applicazione di formule matematiche possiamo vedere che vengono aumentate, rispetto alla realtà, le frequenze da 1000 a 3000 Hertz, che coincidono con una certa approssimazione alle frequenze della voce umana. Per contro vengono progressivamente smorzate (riducendole ad un valore inferiore a quello reale) tutte le frequenze superiori a 10000 Hertz. Ebbene, tutte queste funzioni acustiche vengono “bypassate”, ovvero scavalcate, dall’impianto cocleare: non c’è nessuna raccolta dei suoni da parte del padiglione auricolare, né tantomeno una esaltazione delle frequenze della voce umana rispetto alle altre. Ecco che cominciamo a capire come mai le persone normoudenti sentono così bene le voci umani e riescono a separarle dai suoni ambientali: non è solamente un fatto di “cervello che riesce a separare i suoni”, ma è anche il fatto che fin dall’origine, prima ancora di arrivare al timpano, i suoni vengono “presentati” nel migliore dei modi possibili.
Se vogliamo fare un paragone grezzo ma efficace, immaginiamo di avere una chitarra tradizionale (non elettrica), con le sei o dodici corde. Se proviamo a strimpellare, la cassa acustica di legno provvederà a “creare” il tipico suono di chitarra acustica. Adesso immaginiamo di togliere la cassa e di lasciare solo le corde, perfettamente tese (in teoria basterebbe anche coprire perfettamente solo il “buco centrale”, con del nastro adesivo!) : cosa succede? Succede che il suono è molto più tenue, quasi impalpabile, meno netto, meno definito, meno gradevole, meno….tutto. Ecco, questo è il paragone tra udito naturale, che rispetta tutti i passaggi dei suoni, e l’udito artificiale. Ovviamente l’impianto cocleare tenta di risolvere questo problema, mediante l’applicazioni di algoritmi software, filtri che cercano di esaltare le frequenze della voce umana, ma ci si può rendere conto che l’emulazione del vero non è mai uguale al vero. E qui passiamo al secondo problema: la tecnologia “in progress”, ancora lontana dalla perfezione.
Il punto dove la tecnologia differisce maggiormente dalla realtà è nella funzionalità degli elettrodi. La coclea è strutturata in modo talmente sofisticato –teoria della “tonotipicità della coclea”, che richiederebbe un post a parte!- che ogni zona della curva è deputata a raccogliere una certa determinata frequenza. La zona iniziale della coclea per esempio, “raccoglie” le frequenze acute, quella più in profondità riceve invece le frequenze gravi. Gli elettrodi dell’impianto cocleare cosa fanno? In estrema sintesi cercano di ricalcare questo fenomeno: il suono esterno viene filtrato e modificato, poi diviso in “pacchetti” di frequenze, dalla più acuta a quella più grave, e i vari “pacchetti” vengono spediti ai vari elettrodi posizionati lungo la coclea. L’elettrodo più esterno trasmetterà le frequenze più acute, quello successivo le frequenze “acute ma non troppo”, per arrivare all’ultimo elettrodo, quello spinto più a fondo al’interno della coclea, che provvederà alle frequenze più gravi…. cercando così, nella globalità del processo, di emulare il meccanismo naturale dell’udito. Ma è ovvio che 15-20 elettrodi non possono replicare fedelmente l’azione di migliaia di cellule ciliate, che, naturalmente, provvedono alla trasmissione del suono con grande finezza e precisione. La tecnologia cerca di migliorare questo processo con vari "trucchi", tra i quali l’impiego degli “elettrodi virtuali” (“current steering”), una metodica non ancora pienamente applicata, che cerca di moltiplicare il numero degli elettrodi tentando così di “distribuire” meglio i suoni. Oppure aumentando le "pulsazioni" sonore degli elettrodi.
Oltre a questo ci sarebbero moltissime altre cose da dire, per esempio la trasmissione del suono attraverso la catena degli ossicini, martello-incudine-staffa, meccanismo che anche questo viene “saltato” dall’impianto cocleare, ma qui veramente il dicorso diverrebbe troppo lungo e pesante.

E’ veramente incredibile la sofisticazione di tutto l’insieme tecnologico dell’orecchio bionico, stupefacente il numero di problemi e le soluzioni alle quali i tecnici e gli ingegneri hanno cercato di porre mano: sembra davvero di aver a che fare con una meraviglia della tecnologia…. e quale è la nostra sorpresa nell’accorgerci che la Natura si trova nondimeno mille chilometri ancor più avanti.

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