domenica

Ospedale (1 marzo 2010)

Entro all'ospedale al mattino presto, subito mi mettono il codice a barre al polso (per l'identificazione, come un prodotto del supermercato) e in men che non si dica mettono in chiaro la situazione: oggi ricovero, domani mattina operazione, siamo in tre, insieme a me c'è anche un ragazzino di dodici anni e una ragazza della mia età, in attesa dell'operazione. Il giorno successivo (terzo giorno) sarà di degenza post-operatoria e il quarto giorno dismissione ritorno a casa. Tutto perfettamente oliato, una vera catena di montaggio, del resto lì le operazioni di questo tipo sono abbastanza di routine.
Subito esami del sangue e delle urine, poi anamnesi, ovvero lunga chiacchierata con i medici per conoscere un pò di più del paziente, infine colloquio con l'anestesista.
Tutte procedure obbligatorie. Mi inalbero solo quando per due volte consecutive sbagliano a scrivere orecchio sinistro e scrivono invece orecchio destro. Sembra la storiella di quello con il braccio sinistro rotto, che si ritrova con il destro ingessato. Alla fine, con un tratto di pennarello (è la procedura standard) mi faccio disegnare una gran freccia rossa sulla pelle, indicante l'orecchio sinistro. Ecco, adesso siamo sicuri: -------> SINISTRO, non destro.

L'ospedale mi piace, piccolo, pulito, gradevole per quello che può essere un ospedale. Noi tre pazienti siamo sistemati in stanze diverse. Vedo quanto siamo diversi. Il ragazzino praticamente non sa nemmeno cosa gli succederà, è lì accompagnato dalla mamma, e guarda ininterrottamente la tv nella sala d'attesa del reparto. La ragazza è un fascio di nervi e ha una fifa blu per l'operazione.
Io dò l'impressione di attendere l'approssimarsi degli eventi senza particolari emozioni.

Passo le ore a letto, a leggere, o passeggiando nei corridoi. Non mi sento nervoso o impaurito, quanto in fatalistica attesa. In realtà sento di non poter far più niente, sento -da ormai molto tempo- che tutto è ormai in altre mani.
Ecco, questa è una sensazione sgradevole. Sentire di essere impotente in qualcosa che riguarda il proprio destino.

I miei mi fanno compagnia seduti nella stanza accanto al letto. Hanno una virtù che apprezzo moltissimo: il saper stare in silenzio per ore, senza dire una parola. Non c'è bisogno di dover parlare per forza, dicendo un sacco di baggianate tanto per tranquillizzare chi ti sta davanti, è di gran lunga preferibile la presenza, l'esserci. Basta la presenza. Eccomi, ci sono. Sostanza, non apparenza. Alzo gli occhi e li vedo. E' sufficiente.
E' la presenza ad essere di conforto, anche senza nessun gesto o parola particolari.

Le infermiere mi offrono i tranquillanti, i sedativi, "qualcosa per stare tranquillo", qualcosa per dormire. Rifiuto tutto.
Rimango digiuno, nè bere nè mangiare, a causa dell'anestesia imminente.

Le ore passano.

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